mercoledì 12 giugno 2013

PSICOTERAPIA INTERPERSONALE E DEI RITMI SOCIALI PER IL DISTURBO BIPOLARE

"Per pazienti con disturbo bipolare II o disturbo bipolare NOS, la psicoterapia da sola può rappresentare un approccio ragionevole per il trattamento in acuto e nel mantenimento... Abbiamo anche avuto buoni risultati con la IPT in pazienti che hanno avuto diagnosi di distrubo bipolare II" 
(tratto da "Curare il disturbo bipolare" di Ellen Frank, Edizioni Alpes)

La psicoterapia interpersonale e dei ritmi sociali, messa a punto negli Stati Uniti é basata sull'importanza che riveste per chi ha il disturbo bipolare  una vita dai ritmi quanto più regolari possibili. Una routine fatta di pasti regolari, ore di sonno sufficienti, possibilmente al riparo da stress ambientali eccessivi.

La psicoterapia interpersonale è basata sull'assunto che le relazioni interpersonali giocano un ruolo significativo sia nell'esordio sia nel mantenimento del disagio. Pertanto il cuore della terapia consiste nell'identificazione e miglioramento delle difficoltà nel funzionamento interpersonale combattendo l'isolamento sociale, affrontando problemi irrisolti, prendendo in considerazione conflitti interpersonali, aree problematiche.
Si è dimostrata efficace anche quando il disturbo bipolare è la conseguenza di un avvenimento traumatico, come nel caso di un lutto, un divorzio, la perdita del posto di lavoro ed anche in presenza di situazioni familiari difficili.
A questo approcio si è affiancato un nuovo metodo terapeutico basato sul "ritmo sociale". I suoi obiettivi principali sono la messa a punto di uno stile di vita adeguato alle esigenze della malattia e di strategie interpersonali più efficaci. particolare attenzione, inoltre, è rivolta al rispetto dei ritmi biologici e del ciclo sonno-veglia.
Una routine quotidiana regolare e ben seguita unitamente ad una buona igiene del sonno, può avere un effetto assai positivo ed utile per prevenire l'insorgenza di episodi maniacali.

L’IPT è una psicoterapia manualizzata, specificamente rivolta ai bisogni dei pazienti depressi.

 L’IPT mette in relazione l’insorgenza ed il perdurare della depressione con gli eventi interpersonali stressanti che coinvolgono il paziente. In particolare, viene esaminata la correlazione tra depressione e problematiche in campo interpersonale, pur riconoscendo che i problemi interpersonali nel contesto della depressione, possono rappresentare la causa o, a loro volta, essere stati causati dall’episodio depressivo. L’obiettivo iniziale della terapia è la riduzione dei sintomi depressivi ma lo scopo più generale è quello di migliorare la qualità delle relazioni interpersonali ed il funzionamento sociale del paziente.
 L’IPT s’ispira alla scuola interpersonale di psicoanalisi fondata da Meyer e sviluppata da Sullivan, e fa riferimento alla teoria dell’attaccamento di Bowlby, riconoscendo il profondo impatto delle esperienze precoci di vita e dei processi mentali inconsci sui successivi modelli relazionali. Tuttavia, piuttosto che analizzare e ricostruire gli eventi intrapsichici e cognitivi del passato, il terapeuta interpersonale orienta il suo intervento sulle relazioni interpersonali e sul ruolo sociale attuale.
 Nelle sedute iniziali si affronta la depressione secondo il modello medico si compie un intervento psicoeducazionale, dando così un nome alla sindrome e attribuendo il “ruolo di malato”. Inoltre, è previsto l’utilizzo di una terapia farmacologica ove ritenuto necessario. In parallelo si procede ad inserire la depressione nel contesto interpersonale stilando il cosiddetto “inventario interpersonale”, ovvero, una rassegna sistematica delle relazioni interpersonali presenti e passate importanti per il paziente. Lo scopo di questo lavoro è di arrivare a definire l’area problematica primaria d’intervento. Uno degli aspetti più originali della IPT è l’ipotesi che le problematiche interpersonali che si riscontrano nei soggetti depressi possono essere raggruppate in quattro aree:
 Contrasti interpersonali (coniuge, membri della famiglia, amici, colleghi di lavoro, ecc);
Transizioni di ruolo (abbandono della propria famiglia, trasloco, cambio di lavoro, divorzio, gravidanza, pensionamento, ecc);
Dolore del lutto (per lutto in IPT s’intende la morte di una persona cara e non il lutto fantasmatico che è inquadrato tra le transizioni di ruolo);
Deficit interpersonali (solitudine, isolamento sociale).
 Il terapeuta valuta con il paziente quale delle quattro suddette aree è maggiormente correlata all’insorgenza dell’episodio depressivo in atto e, nelle sedute centrali, favorisce una “rinegoziazione” volta al miglioramento delle difficoltà interpersonali associate.
A tale fine, l’IPT si avvale di tecniche proprie di altre psicoterapie, come le psicoterapie ad orientamento psicodinamico (per l’esplorazione e chiarificazione degli affetti), cognitivo-comportamentale (utilizzando tecniche di modificazione del comportamento e di valutazione della percezione di realtà) e sistemico-relazionale (analisi della comunicazione e possibilità di convocare altri significativi in seduta). L’IPT non si distingue quindi per le tecniche, ma per le strategie terapeutiche (ad esempio, porre in relazione l’insorgenza dei sintomi depressivi con dei contrasti interpersonali, visibili o nascosti).
Nella psicoterapia interpersonale l’atteggiamento terapeutico è cordiale, supportivo ed empatico. Il ruolo del terapeuta è attivo e non neutrale. Il transfert non viene incoraggiato e la relazione terapeutica è concettualizzata su una base di realtà facendo riferimento alla percezione interpersonale che il paziente ha dei suoi problemi al di fuori della terapia.

Negli anni, l’IPT è stata adattata al trattamento di altri disturbi quali il disturbo bipolare, i disturbi della condotta alimentare, i disturbi da uso di sostanze; inoltre, sono state apportate delle modificazioni manualizzate in funzione delle problematiche che si riscontrano nell’adolescenza, in età senile, durante e dopo la gravidanza ed anche un adattamento per la terapia di gruppo. In generale, ciascuna variazione è stato manualizzata e validata empiricamente attraverso studi clinici controllati.

L'IPT è una delle psicoterapie maggiormente studiate in ambito di ricerca, rientrando a pieno merito nell'ambito delle cosiddette evidence-based psychotherapies. Per una rassegna completa degli studi sinora effettuati ed ulteriori approfondimenti sulla IPT nel trattamento della depressione dell'adulto e degli altri adattamenti manualizzati si può fare riferimento al sito della International Society for Interpersonal Psychotherapy (I.S.I.P.T) al seguente link:
http://www.interpersonalpsychotherapy.org/

In conclusione l’IPT riesce a coniugare felicemente le fondamentali dimensioni psicodinamiche, cognitive ed interpersonali, traducendo i diversi modelli in un modello clinico, fortemente pragmatico, confortato da un valido background scientifico.



AMORE BENEVOLO E AMORE BISOGNEVOLE


ALTA E BASSA AUTOSTIMA


SINTOMI DELLO STRESS


DIPENDENZA DA ZUCCHERO


domenica 2 giugno 2013

LA PSICOTERAPIA: NON SONO SOLO CHIACCHIERE MA AGISCE SUL CERVELLO

Uno a zero, potrebbe concludersi così un ipotetico match psicologi-psichiatri, almeno per quel che concerne il trattamento delle sindromi depressive. Già nel 2007 era stato pubblicato uno studio ufficiale sugli psicofarmaci in base al quale le loro potenzialità non andrebbero molto al di la dell’effetto placebo, nasceva allora spontaneo chiedersi perché assumere farmaci che, come tutti i prodotti di sintesi, si portano dietro un’infinità di effetti collaterali se è possibile ottenere gli stessi risultati con sostanze decisamente più innocue. In realtà, ad una più attenta lettura, dal rapporto emergeva che l’effetto curativo degli antidepressivi è direttamente proporzionale alla gravità di base della patologia; tanto più essa è ad uno stadio iniziale, tanto minore sarà l’efficacia dei farmaci, il che, se da una parte riconsegna autorevolezza allo psicofarmaco, dall’altra suggerisce inevitabilmente l’urgenza di una seria riflessione sulla disinvoltura con cui simili medicinali vengono prescritti anche per affrontare situazioni di lievissima entità.
Oggi la ricerca è andata ulteriormente avanti, dimostrando che un approccio scientifico ai disagi esistenziali esiste; non è fatto di pillole, bensì di parole, di ascolto, di riflessione, è la strada della psicoterapia. Se, infatti, per decenni il ruolo dell’intervento psicoterapeutico è stato relegato dagli esperti di psichiatria nella sfera del “sono solo chiacchiere, male non fanno ma..”, le più recenti indagini hanno permesso di stabilire con certezza che la psicoterapia agisce sul cervello e produce al suo interno le stesse modifiche che sono apportate dai farmaci. Non è, quindi, un cambiamento di tipo puramente comportamentale quello che può essere promosso dal lavoro psicoterapeutico.
Una risonanza magnetica funzionale al cervello dimostra, infatti, che la terapia della psiche agisce sui circuiti neurobiologici. Fra gli studi portati avanti, quelli condotti su soggetti fobici. Di fronte ad un elemento in grado di innescare in loro la paura, si attiva l’area pre frontale laterale destra; effettuando nuovamente una risonanza sugli stessi soggetti a distanza di mesi, dopo che abbiano seguito un percorso di psicoterapia, si registra una vera e propria variazione della struttura neuronale.
Avere la possibilità di intervenire per controllare le emozioni legate alla sofferenza, rappresenta un’importante traguardo in quanto spesso lo stress causato dal dolore si può trasformare in un disturbo mentale. Questo significa che anche tante patologie che talvolta banalmente si attribuiscono a meccanismi di autosuggestione, dipendono, invece, dall’attivazione o inibizione di specifici circuiti neuronali. La psicoterapia può agire su questo fronte.

DEPRESSIONE MAGGIORE

Secondo il DSM-IV-TR*, i Criteri Diagnostici per l’Episodio Depressivo Maggiore sono i seguenti:

  1. Cinque (o più) dei seguenti sintomi sono stati contemporaneamente presenti durante un periodo di 2 settimane e rappresentano un cambiamento rispetto al precedente livello di funzionamento; almeno uno dei sintomi è costituito da 1) umore depresso o 2) perdita di interesse o piacere.
    Nota Non includere sintomi chiaramente dovuti ad una condizione medica generale o deliri o allucinazioni incongrui all’umore.
    1. umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno, come riportato dal soggetto (per es., si sente triste o vuoto) o come osservato dagli altri (per es., appare lamentoso). 
      Nota: Nei bambini e negli adolescenti l’umore può essere irritabile
    2. marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno (come riportato dal soggetto o come osservato dagli altri)
    3. significativa perdita di peso, senza essere a dieta, o aumento di peso (per es., un cambiamento superiore al 5% del peso corporeo in un mese) oppurediminuzione o aumento dell’appetito quasi ogni giorno.
      Nota: Nei bambini, considerare l’incapacità di raggiungere i normali livelli ponderali
    4. insonnia o ipersonnia quasi ogni giorno
    5. agitazione o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno (osservabile dagli altri, non semplicemente sentimenti soggettivi di essere irrequieto o rallentato)
    6. faticabilità o mancanza di energia quasi ogni giorno
    7. sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi o inappropriati (che possono essere deliranti), quasi ogni giorno (non semplicemente autoaccusa o sentimenti di colpa per essere ammalato)
    8. ridotta capacità di pensare o di concentrarsi, oindecisione, quasi ogni giorno (come impressione soggettiva o osservata dagli altri)
    9. pensieri ricorrenti di morte (non solo paura di morire), ricorrente ideazione suicidaria senza un piano specifico, o un tentativo di suicidio, o l’ideazione di un piano specifico per commettere suicidio.
  2. I sintomi non soddisfano i criteri per un Episodio Misto.
  3. I sintomi causano disagio clinicamente significativo ocompromissione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti.
  4. I sintomi non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per es., una droga di abuso, un medicamento) o di una condizione medica generale (per es., ipotiroidismo).
  5. I sintomi non sono meglio giustificati da Lutto, cioè, dopo la perdita di una persona amata, i sintomi persistono per più di 2 mesi o sono caratterizzati da una compromissione funzionale marcata, autosvalutazione patologica, ideazione suicidaria, sintomi psicotici o rallentamento psicomotorio.

*American Psychiatric Association (2000). DSM-IV-TR Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders , Fourth Edition, Text Revision.Edizione Italiana: Masson, Milano.



GIOCO D'AZZARDO PATOLOGICO

Il gioco d’azzardo patologico (denominato anche GAP) è stato riconosciuto ufficialmente come disturbo psichiatrico a sé stante dall’American Psychiatric Association nel 1980: nel 1994, il GAP è stato classificato
nel DSM-IV (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) come “disturbo del controllo degli impulsi non classificati altrove”. 
Il DSM-IV ha definito il GAP come un comportamento persistente, ricorrente e
maladattivo di gioco che compromette le attività personali, familiari o lavorative;l'ICD-10 lo ha inserito tra i disturbi delle abitudini e degli impulsi. In ambito clinico è dimostrata in letteratura una forte associazione di comorbidità con altri quadri diagnostici quali depressione, ipomania, disturbo bipolare, impulsività, abuso di sostanze (alcol, tabacco, sostanze psicoattive illegali), disturbi di personalità (antisociale, narcisistico, borderline), deficit dell'attenzione con iperattività, disturbo da attacchi di panico con o senza agorafobia, disturbi fisici associati allo stress (ulcera peptica, ipertensione arteriosa). La prevalenza tra la popolazione adulta del GAP secondo il DSM-IV è dell’1-3%, con maggiore prevalenza tra familiari e parenti di giocatori ed in soggetti con un basso grado di istruzione rispetto alla popolazione generale; dal punto di vista sociale, l'impatto del GAP ha ripercussioni persino più pesanti dell’uso problematico di droghe (divenuto in larga misura “interclassista”), andando ad incidere prevalentemente su fasce sociali deboli sul piano economico e socio-culturale.
Come intervenire? Il primo intervento è la richiesta di aiuto da parte del soggetto interessato, o di una persona a lui vicina, senza questa motivazione primaria sarà molto difficile intervenire positivamente su un potenziale giocatore patologico. Un altro fattore importante, che può indurre il giocatore a rivolgersi ad uno psicologo, è la perdita della libertà nel giocare. Il gioco diventa una necessità, un obbligo, una costrizione, non si è più liberi di giocare. Come tutte le dipendenze, anche il GAP, necessita di un intervento specialistico per riuscire a uscirne e ristabilire un contatto funzionale con la realtà, attraverso programmi di educazione finalizzati alla remissione dei sintomi.